Il 26 settembre scorso Enzo Bearzot avrebbe compiuto 93 anni. Invece, sono già passati dieci anni dalla sua morte e il tempo, che come si dice è galantuomo, ha dato all’allenatore friulano l’onore che merita. Bearzot guidò l’Italia nel vittorioso mondiale di Spagna del 1982 e in quello precedente del 1978 in Argentina, dove gli azzurri giocarono probabilmente il più bel calcio della loro nobile storia. Il tecnico friulano fece anche l’errore di rimanere alla guida degli azzurri per puro amor di patria (Bearzot era veramente innamorato della Nazionale) nel 1986, venendo eliminato dalla Francia negli ottavi di finale. Ma quest’ultima avventura non può certo inficiare un percorso unico e vincente, improntato sulla correttezza, sulla coerenza, sulla competenza, sulla lealtà e sul coraggio.
Bearzot e il calcio d’altri tempi
Parole che sembrano appartenere a un vocabolario di una lingua straniera se rapportate al calcio di oggi, ma Bearzot era un uomo d’altri tempi anche negli anni ’80. Bearzot era coraggioso perché difendeva i suoi ragazzi e le sue idee da tutti gli attacchi, soprattutto i più bassi e meschini.
Onore al merito
Oggi Bearzot è giustamente considerato un monumento del nostro calcio, ma chi ha vissuto, da semplice appassionato di calcio o da addetto ai lavori i suoi anni ruggenti, tra il 1976 e il 1986, sa bene che è stato uno dei personaggi più discussi e criticati non solo della storia del nostro calcio ma addirittura del nostro Paese. Nel dire ciò non vorremmo sembrare esagerati ma l’Italia, intesa come Nazionale di calcio, negli anni ’80 era uno degli argomenti più dibattuti e il giornalismo sportivo, al di là di qualche gigante, stava diventando, grazie al cattivo uso di alcuni programmi televisivi (come il Processo del Lunedì), una palestra di maleducazione. Bearzot subito osteggiato da una parte consistente della critica visse con fastidio persino il trionfo del mondiale spagnolo ed aspettò in trepidante attesa il flop di quello successivo in Messico.
Il silenzio stampa
Le eccessive critiche nel 1982 spinsero Bearzot a ricorrere al silenzio stampa, autorizzando a parlare l’uomo più silenzioso: il capitano Dino Zoff. Il perché di tanta acredine era per certi versi inspiegabile per altri imputabile al campanile. I giornalisti romani criticavano Bearzot perché, secondo loro, non convocava i giocatori di Roma e Lazio. I giornalisti milanesi, sponda Inter, gli contestavano la mancata convocazione di Beccalossi e, sponda Milan, la scarsa considerazione in Franco Baresi, non valutando che quest’ultimo era chiuso da un certo Gaetano Scirea. In molti l’accusavano di affidarsi troppo al blocco della Juventus che, però, in quegli anni era veramente di granito.
Bearzot “scarta” le polemiche
Ma lasciando perdere le polemiche e le offese che dovette digerire Bearzot, analizziamo il suo percorso sportivo, sia da giocatore che da allenatore. Dopo una vita da mediano, come direbbe Libague, spesa soprattutto nel Torino, uno dei grandi amori della sua vita sportiva, dove ebbe la soddisfazione di guadagnarsi pure una convocazione con relativo gettone di presenza in nazionale, Bearzot imboccò subito la strada da allenatore, guadagnandosi la fiducia di Artemio Franchi che, dopo il disastroso mondiale in Inghilterra del 1966, decise, una volta assuntane la guida, di rifondare il calcio italiano.
Le nuove idee
Tra le idee di Franchi c’era pure quella di formare gli allenatori a livello federale. Da questo progetto vennero fuori prima Ferruccio Valcareggi, che condusse l’Italia alla vittoria degli Europei del 1968 e al titolo di vice campioni del mondo nel 1970, poi Bearzot (dopo un breve interregno con Bernardini) e infine Azeglio Vicini. A questi poi Cesare Maldini, vice allenatore per oltre un decennio di Bearzot, poi allenatore plurivittorioso con l’under 21 e sfortunato commissario tecnico ai mondiali di Francia nel 1998 (eliminato solo ai rigori dai padroni di casa negli ottavi).
Una squadra, una famiglia
Bearzot ebbe il grande merito di concepire la squadra come una famiglia, mettendo al centro di tutto il “gruppo”. I giocatori non funzionali al gruppo e che potevano minarne gli equilibri neppure convocati. Su questi concetti creò un clima da “uno per tutti, tutti per uno”. Che trascinò gli azzurri alla conquista del mondiale spagnolo contro tutti i pronostici e mettendo in fila degli avversari uno più forte dell’altro. Argentina, Brasile, Polonia e Germania. Il tutto grazie a un gioco figlio del calcio all’italiana, con un’attenta copertura difensiva, declinato, però, in una versione più moderna. I terzini diventavano ali aggiunte (Cabrini), le ali diventano dei registi (Bruno Conti). Ea centrocampo s’intravedeva l’antenato (Tardelli) di quello che oggi viene chiamato il tanto celebrato box to box.
Le passioni di Bearzot
Uomo di sport, ma anche di profondo cultura e di passioni come il jazz, secondo lui una squadra di calcio doveva ispirarsi ad un’orchestra jazz. E la letteratura, dove poteva vantare amicizie altolocate, come quella con Giovanni Arpino che lo soprannominò il Vecio nel suo romanzo “Azzurro tenebra” (dedicato alla spedizione azzurra ai mondiali di Germania 1974)Ci piace estrapolare questa descrizione di Bearzot. “il Vecio scosse la mutria, rassegnato. Sembrava triste, ma se appena scopriva i denti in un sorriso, ecco che poteva incutere paura. In quell’attimo il volto, pur buono, avrebbe allontanato qualsiasi bullo da caffè. Un calcio, durante lontane risse in area di rigore, aveva schiacciato il setto nasale del Vecio, che ora ostentava la maschera sorniona d’un pugile in guardia perenne.”
Le parole di Arpino inquadrano alla perfezione Bearzot, soprattutto la similitudine col pugile in guardia perenne. E in effetti, la vita di Bearzot è stata come un incontro sul ring con: giornalisti, avversari e avversità della vita. Da ognuno di loro si è sempre difeso non rinunciando mai a contrattaccare, possibilmente in contropiede.