Ci vuole coraggio e il Giro d’Italia lo ha trovato. Pedala contro il virus per riaffermare la forza e la gioia dello sport, a patto che corridori e tifosi rispettino le regole. Lo sport – tutto – fa parte della vita, è una voce importante della società e dell’economia e in una situazione come quell’attuale ha anche un valore di ripresa, di voglia di farcela. Certo è un cammino tortuoso, le vicende del calcio lo stanno dimostrando, ma può risultare vincente. Il problema non è riempire di nuovo gli stadi (occorre sapersi, per ora, accontentare dei limiti), ma riconquistare la libertà dello sport in attesa che possano tornare anche le folle. E anche una bella pedalata può servire.
La pedalata più strana
Il Giro d’Italia, il più strano della sua storia, parte da Monreale, scivolerà sotto la prima neve dell’Etna, risalirà il versante adriatico per rientrare a Nordest. In Veneto tra le colline del Prosecco, in Friuli dove volano le Frecce Tricolori. Poi le Dolomiti e le Alpi, lo Stelvio per non farsi mancare niente, e Milano a chiudere, come quasi sempre.
La pedalata del Giro è la storia d’Italia
E’ nato nel 1909 e da allora è mancato soltanto negli anni delle due guerre mondiali, quando tutto era soffocato dall’odio e dalla violenza. Il Giro ha fatto la nostra storia con uno sport che una volta era il più popolare, più del calcio. Ci sono regioni, come il Veneto, nelle quali il ciclismo è rimasto lo sport per eccellenza, fatto di fatica e sudore, gloria e soprattutto passione.
Il Veneto è terra di campioni e di gregari, di assi e di piccoli pedalatori che si sacrificano. Ha dato campioni del mondo e vincitori del Giro, maglie iridate e maglie rosa. Non c’è tappa che non mostri l’attaccamento dei veneti a uno sport che come il Veneto è fatto di pianura e di salite, di scatti e di potenza, di cadute e di risalite.
I grandi momenti
Il Giro ha raccontato prima l’Italia di Girardengo e Binda, poi quella di Bartali e Coppi, dopo quella del boom tra Adorni e Balmamion, infine di Gimondi e Saronni, di Moser, fino a Pantani e Nibali. Ogni campione ha segnato un’epoca della nostra vita e un po’ anche della nostra storia.
Quando la pedalata italiana batteva i francesi
Ci sono stati decenni in cui il Giro era anche più importante del Tour de France e non c’è stato campione che non abbia marcato il suo regno almeno una volta. Dall’immenso Merckx (5 vittorie, come Binda e Coppi) a Hinault, Indurain e prima di loro Gaul e Anquetil. Il Giro ha assorbito i nostri sogni e le nostre delusioni, ci ha fatto esaltare sulle cime affollate di neve e di tifosi, stringere i denti nelle discese fatte di curve strette che guardavano sul vuoto.
Tanti ricordano le telecronache di Adriano De Zan che sciorinava l’ordine d’arrivo come una poesia imparata a memoria e non sbagliava mai un nome! E anche “Il processo alla tappa” di Zavoli con corridori ancora ingenui e qualcuno poco colto che gridava all’arrivo: “Mamma sono contento di essere arrivato uno”. Il Quartetto Cetra, complesso vocale che allora era popolare, ci compose la sigla “Ciao mama… ho messo la maglietta tua di lana”. Era un altro ciclismo, forse più vero.
Chi sarà la nuova maglia rosa?
Riecco a chiederci chi sarà la nuova maglia rosa, se c’è ancora un italiano, oltre a Nibali, che sappia tenere in salita e nel cronometro. A domandarci come andrà in questa Italia che usa la mascherina, tiene la distanza, manda i figli a scuola su banchi che forse hanno le rotelle, ha paura come tutto il mondo e spera di farcela. Andrà bene, perché chi riapre uno stadio e fa ripartire le biciclette a pedale crede nel domani. Perché salire e scendere assomiglia alla vita. E una mascherina non congela il respiro, anzi lo conserva e riaccende i sogni. In fondo, cosa c’è più bello del sogno di un bambino che immagina che da grande sarà un altro Nibali? Chiudere il Giro sarebbe stato come chiudere i sogni. E invece di questi proprio adesso abbiamo più necessità.